IL BAMBINO CENCIOSO

LUSTRASCARPE, SOGNI E CAVALLI BIANCHI
 
“La verità si dice al confessore,
in tribunale devi dire quello che dico io”
(Avvocato Bonavinoa Giuseppe)

 

La Verità ha un suo costo perché non tutti sono sempre pronti ad accettarla, specie quando svela il brutto, il deforme e il vergognoso.
Me se il Cinema nel suo essere macchina provocativa intelligente dovrebbe sviluppare crescita emotiva e intellettuale per tutti, spesso è relegata eccessivamente alla funzione di portare leggerezza, in particolare laddove le condizioni di vita siano particolarmente dure.

Vittorio De Sica, attore brillante e poi regista attento, vissuto tra due guerre mondiali in quella che definì una tragica e aristocratica povertà, apprese di una storia commovente che aveva legato un cavallo bianco a due sciuscià,dalla parola di origine napoletana che indicava i bambini lustrascarpe, dai diretti protagonisti nel corso di un’intervista per il settimanale Film d’Oggi. Si trattava di due ragazzini, Cappellone e Scimmietta, che vestivano con poco, spesso nudi e con calzoncini laceri e una mantellina.
Per quanto immediatamente dopo la fine del conflitto mondialeper più di qualcuno la possibilità che due ragazzini si impegnassero a lustrare scarpe per mantenere un cavallopotèdestare perplessità, la Poetica di Vittorio De Sica,da sempre sinceramente vicina al mondo dei bambini,sposò la vicenda fino a farne un film.
Così nacque Sciuscià, un film vero e autentico, ma certamente scomodo.

Ispirato più che mai, De Sica prese il bambino dalla strada come fece Caravaggio e come farà poco più tardi Pasolini vagando tra le borgate romane. Trovò in Rinaldo Smordoni un dodicenne che viveva la strada nei pressi della via Salaria, che non era mai andato al cinema e che a malapena aveva finito la terza elementare il soggetto perfetto. Per la sua freschezza scenica fu ingaggiato immediatamente per dare vita al personaggio di Giuseppe, figura centrale del film, colui che avrebbe incarnato il candore e il sacrificale.

Il film fu scritto a molte mani tra Sergio Amidei e Cesare Zavattini. In particolare Zavattini, uomo magnificamente versato nella sceneggiatura e nella poesia, che condusse, tra l’altro, un’indagine sulla condizione minorile a Roma riuscì a dare piena grazia al tema del cavallo, ma dovette però desistere da un finale doppiamente tragico in cui un fanciullo moriva e l’altro si suicidava.
Così si stabilì che Pasquale si dovesse salvare, per quanto responsabile involontario della morte dell’amico Giuseppe, ma che avrebbe portato per tutta la vita il peso dell’incidente.

La vicenda si svolge nello spazio tra Via Veneto, la vicina Villa Borghese e il Riformatorio del San Michele, il luogo dove andavano a finire tutti i piccoli cattivi, dove una certa cattiveria si perfezionava e dove il sistema penale colpiva i più deboli, per quanto bambini.
Pasquale e Giuseppe, due minori divisi tra le necessità della vita e i bisogni ludici, fanno i lustrascarpe in Via Veneto, ma appena possono scappano a Villa Borghese per affittare Bersagliere, un cavallo bianco che cavalcano in due per mostrarsi agli altri come si farebbe oggi con un motorino.
Ma a un tratto il loro fragile equilibrio si rompe irrimediabilmente quando vengono accusati di furto, per quanto innocenti, e condotti in carcere dove vivranno in celle separate e sovraffollate.

Il cavallo bianco è inequivocabilmente il simbolo del riscatto sociale, ma anche di quel candore perduto, di quel senso di libertà che deve ispirare ogni persona e che in questo caso si dimostrerà impossibile e infine della speranza. In fondo in ogni infanzia difficile dovrebbe esserci posto per la fantasia e il sogno, per quanto non siano sempre in grado di garantire l’affrancamento sicuro.
Qui la bruttura della vita e la posizione bassa del lustrascarpe, sempre in contatto con il marciapiede e le suole, si elevano comunque fino a farsi potentemente poesia per cui ciò che è pesante riesce a tramutarsi in leggero.

In sintesi si tratta della triste storia di un amicizia stressata, ma mai completamente azzerata dalle difficili circostanze della vita e dai condizionamenti sociali che costringono l’individuo a fare scelte a cui non è pronto.
La relazione tra Pasquale e Giuseppe, due giovanissime vittime colte ancora nella loro innocenza, per quanto adultizzati, è narrata con straordinaria intensità.
Le scene dal carcere sembrano ispirate alle celebri illustrazioni scenografiche delle Carceri d’Invenzione di Giovanni Battista Piranesi, incisore e architetto veneziano trasferitosi proprio a Roma nel 1740, e nelle strutture labirintiche rimarcano la gravosa negazione del tempo per soggetti in età evolutiva (Piranesi 1945).

Il bambino povero e straccione, per giunta orfano, ma informalmente adottato era già apparso nel cinema e ancor prima le ‘600 con la pittura di Murillo. Lo aveva messo in scena Charlie Chaplin nel suo The Kid del 1921, malamente tradotto in italiano con Il monello alludendo impropriamente a un’idea di monelleria in realtà attribuibile a una complicità istruita dall’adulto. Nell’ottica moderna vi troveremmo perfino un lieve sfruttamento.
Si trattò di Jackie Coogan che con il suo berretto calzato di traverso, la faccetta impertinente e i suoi 6 anni divenne il simbolo di quella moltitudine di orfani americani della prima guerra mondiale destinati a una vita infelice. Così il regista e attore inglese realizzò un doppio tra un adulto e un bambino accumunati da uno stesso destino, dalla stessa miseria e malinconia.

Ma la storia ha dimostrato che talora la vita dorata dell’attore bambino folgorato dal suo essere prodigio si possa trasformare in una vita adolescenziale e adulta piuttosto complicata, come se l’esperienza attoriale contaminasse la vita reale fino a renderla invivibile nella sua semplicità e il sè della persona si sdoppiasse. Si può essere anche buoni attori, ma si deve diventare saggi imprenditori di sé stessi.
Se Jackie Coogan, derubato dei guadagni dalla madre, per tutta la vita rimase il bambino che lanciava sassi e condannato a fare il caratterista, finì a fare Zio Fester ne La Famiglia Adams, per altri piccoli attori le sorti furono ben peggiori.

Dunque seppure lo spettatore avesse già visto bambini di strada e quindi avrebbe dovuto possedere gli anticorpi per elaborarne i contenuti, il film fu un clamoroso insuccesso in Italia. Nell’immediato dopoguerra gli italiani aveva bisogno di evasione e chiedevano al cinema di fare puro intrattenimento e ancor di più di compiere la magia dello straniamento, di essere trasportati in un’isola incantata.
De Sica fu accusato di macchiare il buon nome del Paese, mentre il produttore, l’italoamericano Paolo William Tamburella, oriundo di Cleveland nell’Ohio, rischiò la bancarotta. Perfino Giulio Andreotti in una lettera disse di aspettarsi dal cinema di De Sica un raggio di sole.
Tra gli oppositori L’Osservatore Romano scrisse che l’odissea dei due piccoli accattoni dava “un senso di ripugnanza, oltreché di rammarico e pena”.
Il Ministero, preoccupato per le reazioni negative e i presunti danni di Immagine, vietò perfino l’esportazione della pellicola, ma successivamente pressato dalle proteste fece decadere il divieto.

Al contrario in America il film riscosse un successo straordinario. A New York il successo fu particolarmente sensazionale e nel 1947 vinse un Oscar onorario.
Diversamente dall’Italia l’America, pur avendo generato Hollywood con la sua macchina dei sogni, aveva bisogno di vedere quell’incelabile che caratterizzava la condizione degli italiani ed era culturalmente pronta ad apprezzare l’approccio neorealistico, a sua volta ispirato dal Verismo italiano e dal Realismo poetico francese.
Charlie Chaplin, uomo di cinema in America dal gusto inequivocabilmente europeo, intuì immediatamente la grandezza dell’opera. Christian De Sica ha dichiarato: “Una sera a Hollywood ci fu una proiezione privata di Sciuscià a casa della grande attrice Merle Oberon, nel pubblico c’era anche Judy Garland. E c’era Charlie Chaplin, il più grande di tutti secondo papà. Finita la proiezione ci fu un silenzio totale. Papà pensò al peggio. Poi Chaplin, con gli occhi pieni di lacrime, disse: ‘De Sica, torni in Italia perché qui è troppo presto per film così’”».

Rinaldo Smordoni, il piccolo bambino cencioso di Sciuscià, al contrario di Franco Interlenghi che proseguì la carriera di attore, non si interrogò mai a proposito della recitazione. Al set affidò sempre e integralmente il suo sé, senza filtri, per un’attività che più volte chiamò gioco. Peraltro spaventato dall’incipiente divismo, dopo qualche apparizione in pochi altri film lasciò il cinema per dedicarsi alla vita.
Non amò mai la popolarità al punto da desiderare ardentemente l’oblio che mise in atto con scrupolosa cura fino all’inevitabile svelamento. In merito a ciò così ha dichiarato:“Nemmeno alle mie figlie, l’ho detto. L’hanno saputo di traverso, per via del computer. E i miei amici fino a due, tre anni fa non sapevano nulla, poi si è sparsa la voce e ora ho più celebrità di quando ho girato il film. Perché non l’ho detto? Non so. Non è come se avessi dimenticato quella vita, ma quasi”.
Preferì la normalità alla notorietà, la sua realtà al realismo cinematografico, una realtà fatta di lavoro nell’edilizia e poi come autista nel trasporto pubblico.
Oggi è un felice pensionato ottantenne.


PICCOLA BIBLIOTECA TEMATICA


Carceri d’Invenzione GIOVANNI BATTISTA PIRANESI 1745
Oliver Twist CHARLES DICKENS 1837
Rosso malpelo GIOVANNNI VERGA 1878
Ragazzi di vita PIER PAOLO PASOLINI 1955

 
La visionarietà di Giovanni Battista Piranesi fu tale da generare forti influenze nell’Arte successiva a lui., specie di natura gotica e romantica. Nel suo Carceri si percepiscono gli aspetti restrittivi e costrittivi dell’ambiente che agiscono sulla vita di molte persone.
Charles Dickens, appartenente a una famiglia gravemente impoverita e con un padre che finisce in carcere per debiti, a 25 anni partorisce il primo romanzo sociale della storia dando un risalto decisamente non romantico alla condizione del minore nella Londra vittoriana dell’800. Oliver Twist è l’eroe angelico che non sarà mai traviato dal contatto con il delinquere e la violenza.
Al contrario in una Sicilia di fine ‘800, segnata dall’ignoranza e dallo sfruttamento, Rosso Malpelo è un ragazzo che lavora in una cava di sabbia, luogo ideale per l’abbrutimento umano in una condizione lavorativa che lo rende animale tra gli animali. Picchiato in famiglia e vessato dagli altri finisce per sfogare il dolore e la rabbia su un asino e su Ranocchio, un altro ragazzo più debole. La morte del padre nella cava lo incattivirà e lo renderà definitivamente malpelo, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi. Qui il narratore si fa fotografo e si eclissa per rendere la scrittura verista facendo largo uso di espressioni che richiamano l’animalesco come ranicchiarsi come un cane malato, schivare come un cane rognoso, lasciarsi caricare meglio di un asino.
Pier Paolo Pasolini era da poco approdato a Roma quando scrive Ragazzi di vita, libro scandaloso e censurato anche a causa degli accenni alla prostituzione maschile, che racconta la condizione del sottoproletariato romano del dopoguerra in cui la strada e il fiume, vero e proprio corpo fluido, sono la scuola. Per lui Roma fu la città stratificata da secoli di storia in cui sente l’urgenza di una narrazione alternativa, nei suoi universi amorali e assimilando la lingua del luogo. Riccetto e Caciotta, tipi umani tipici della borgata romana, vivono tra le marane, le rive del Tevere e i tram notturni. Si muovono famelicamente e predatoriamente rubacchiando dappertutto. Un giorno Riccetto affitta una barca sul Tevere e si getta nel fiume per salvare una rondine, a testimonianza di una umanità sottaciuta.


PICCOLA CINETECA TEMATICA


Il Monello CHARLIE CHAPLIN 1921
I bambini ci guardano VITTORIO DE SICA 1943
Sciuscià VITTORIO DE SICA 1946
Accattone PIER PAOLO PASOLINI 1961
Oliver CAROL REED 1968
Sin Oliver Twist ROMAN POLANSKI 2006
Protagonisti per sempre ANDREY KONCHALOVSKIY 2019
Sciuscià 70 MIMMO VERDESCA 2016

 
In tutta la sua opera Charlie Chaplin cercherà sempre di legare il sorriso alla lacrima, in consonanza con la sua vena malinconica. Ne Il Monello, il suo primo lungometraggio, se da un lato c’è un bambino abbandonato, dall’altro c’è un uomo pronto a genitorializzarsi. Così un povero vetraio e un bambino cercheranno di sopravvivere alle avversità della vita.
Ne I bambini ci guardano, film che apre coraggiosamente al Neorealismo, la collaborazione con Zavattini rompe con il cinema edulcorante del passato parlando dell’indegnità degli adulti nei confronti dei bambini.
Sciuscià, partorito da più padri, ha un doppio merito; vinse il primo Oscar della storia del Cinema italiano e fu il primo Oscar assegnato a un film non americano.
Accattone, scritto e diretto da Pasolini, mostra il prodotto avanzato di un’infanzia traviata. Qui si illustra come un bambino che ha fatto la strada possa diventare un pappone, provando ad affrancarsi e ribaltando la dinamica dello sfruttamento.
Se Carol Reed, il regista londinese e serio de Il terzo uomo, realizza Oliver!, un film doppiamente musicale in quanto tratto dal musical guadagnandosi 6 Oscar, inclusi i due più ambiti, quello come miglior film e alla regia, per trattare un tema pesante con la maggiore leggerezza possibile, Roman Polanski ricerca il bambino maltrattato, riscopre ancora una volta il bambino di Dickens e lo rimette in scena, riprendendo un’ambientazione prevalentemente tenebrosa in modo da rendere palpabile la miseria morale prima che materiale.
Protagonisti per sempre racconta l’avventura cinematografica di alcuni bambini attori, dal dopoguerra a oggi. Mimmo Verdesca, attento custode della storia del cinema, sceglie la forma documentaristica, la più efficace per dare voce e forza alla testimonianza.
Lo stesso accade con Sciuscià 70, film documentario pluripremiato, che a 70 anni dall’uscita del film con l’aiuto dell’Istituto Luce e del suo prezioso materiale d’archivio intende celebrarlo come un film eterno, così come lo ha definito Gianni Amelio.


PICCOLA PINACOTECA TEMATICA


Bacchino malato CARAVAGGIO 1591 Galleria Borghese, Roma
Bambino che si spulcia BARTOLOME’ MURILLO 1650, Louvre, Parigi
Bambini che giocano ai dadi BARTOLOME’ MURILLO 1675, Alte Pinachotek, Monaco
Bambini che mangiano frutta BARTOLOME’ MURILLO 1675, Alte Pinachotek, Monaco
Portarolo seduto con cesta a tracolla, uova e pollame PITOCCHETTO 1735, Pinacoteca di Brera, Milano

 
Caravaggio giunto a Roma pressoché ventenne si inventa una nuova pittura di genere che include il giovane soggetto umano preso dalla strada associandolo a oggetti come cesti di frutta. Per molti versi egli stesso è la strada. In Bacchino malato si ritrae in un periodo in cui è malarico.
Bartolomè Esteban Murillo, sivigliano, di famiglia numerosa con 14 fratelli, orfano e padre di 9 figli, sceglie di rappresentare i trovatelli che scalzi affollavano le strade della Siviglia del ‘600 per denunciare lo stato di abbandono di una certa infanzia. Tutto avviene all’aperto nella franca evidenziazione dell’assenza della casa. Me se nel Bambino che si spulcia, appartenente alla prima produzione più pessimistica, il soggetto è rappresentato da solo in un interno che non può certo dirsi appropriato e confortevole, ne Bambini che giocano ai dadi introduce momenti ludici, per quanto lo sguardo dell’osservatore sia attratto dal bambino più piccolo in piedi che mangia un pezzo di pane e dai suoi occhi grandi e neri che parlano di una fame nera. Infine ne Bambini che mangiano frutta, i soggetti sembrano momentaneamente affrancati dalla tristezza, oltre che dalla fame.
In Italia Giacomo Ceruti, detto il Pitocchetto per la predilezione verso i pitocchi, la gente umile e i vagabondi, riprende e approfondisce la tradizione pittorica lombarda formatasi con Caravaggio con il suo gusto per la rappresentazione empatica di un’umanità popolana. In Portarolo seduto con cesta a tracolla, uova e pollame si vede un ragazzo dallo sguardo malinconico e i piedi nudi, rassegnato alla propria umile condizione.